"Cristo si è fermato a Eboli" di Carlo Levi
Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.
Carlo Levi |
Ci sono libri che oggi vengono dimenticati: pur nella loro drammaticità, finezza stilistica, nell'importanza del loro intrinseco significato, vengono dimenticati; sopraggiungono, già condannati, sugli alti ripiani di bui sgabuzzini e di cui il ricordo scompare.
Poi ci sono libri che pur riuscendo a superare quella cortina nera dell'oblio, irrorati da tutti i sacri crismi dovuti ad un capolavoro, rimangono, un poco ammaccati, detentori di titoli altisonanti, citazioni e ammirazioni che si perdono però nel vuoto e quindi di rado letti veramente, compresi ed amati. Questa è la sorte di tutte quelle opere che a causa della loro invadente celebrità sono confinate nell'epoca in cui sono state scritte, poiché si ritengono i contenuti superati o così risaputi che in tempi moderni non hanno più nulla da dire.
Leggendo "Cristo si è fermato a Eboli" ho scoperto il surreale squilibrio che persiste tra un'opera considerata tra le più belle della letteratura e il suo testo tenuto di poco conto, non abbastanza ascoltato, lasciato cadere nell'indifferenza del progresso.
Nella premessa della mia edizione del 1968 della Mondadori (quando ancora i libri contenevano prefazioni e cenni biografici e stilistici), sono rimasta compiaciuta del fatto che si ritenesse, con ragione, "Cristo si è fermato a Eboli" "un libro del futuro", simbolo di "una guerra civile che continua ancora" e perciò correlato al nostro oggi e forse anche domani.
Il suo autore Carlo Levi (1902-1975) ha rappresentato lungo il Novecento l'intellettuale a tutto tondo: piemontese, di un'agiata famiglia ebraica, antifascista convinto, confinato durante la guerra in Africa, arrestato durante la Seconda Guerra Mondiale e poi medico, scrittore, pittore stimato, amico di quel gruppo di cui facevano parte Pavese, Pasolini, Calvino, Guttuso, Savinio, il mondo intellettuale e mondano degli anni Cinquanta e, infine, politico come senatore della Repubblica.
Il libro per cui si affermò a livello internazionale è certamente "Cristo si è fermato a Eboli" scritto a Firenze tra il dicembre del 1943 e luglio del 1944, nel momento drammatico dell'occupazione nazista e pubblicato presso l'Einaudi nel settembre del 1945 per collana "Saggi".
L'autore stesso scrisse nella sua prima prefazione: <<il libro tuttavia non è un diario: fu scritto molti anni dopo l'esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento>>. Il testo è più un'opera memorialistica rimandante all'anno del suo confino nel 1935, quando nel pieno del fascismo, sospettato di attività sediziose, venne portato a Grassano,(in Basilicata), e trasferito poi nel piccolo paese di Aliano. Ma andando oltre le vicende autobiografiche, "Cristo si è fermato a Eboli" ha rappresentato il grande affresco, politico, geografico, storico e sociale, di quella terra desolata e disprezzata che era la Lucania; la sua condizione di estrema povertà, arretratezza culturale, lo stato insalubre dei contadini del Mezzogiorno, tagliati fuori dalla storia, dalla ragione, dalla religione e dallo Stato, l'eterna "questione meridionale": Carlo Levi svelava al mondo tutto questo ma insieme quegli usi e costumi, linguaggi e tradizioni tra veridicità e mito che sono l'altra faccia della stessa medaglia che è la nostra esistenza.
Il titolo riprende l'antico adagio dei contadini lucani, ripetuto per descrivere l'alienazione del proprio ambiente dal resto d'Italia: uno spazio atemporale, scosceso e arido, dove le leggi spirituali e temporali non hanno visto la luce, dove tutto è governato dalla natura, dagli istinti, dalle cose e dal soprannaturale, dove gli anni passano ma non scorrono, come i pensieri e le vite.
L'opera si apre al momento della campagna d'Africa, quando Carlo Levi viene trasferito dal comune di Grassano a Gagliano (pronuncia in dialetto di Aliano), paese posto sopra un burrone tufaceo, circondato nient'altro che da <<precipizi di argilla bianca su cui le case stavano come librate nell'aria>>.
Qui arriva, accolto benevolmente dalla popolazione locale e travolto dalla scoperta di una seconda Italia, una seconda civiltà distante millenni e addormentata in un ozio borbonico, aggravata di eterna rassegnazione, passività e ribellione soffocata. La piccola comunità è suddivisa fra autorità, gentiluomini e contadini, tutti bloccati da vendette e odi secolari, che si tramandano dalla notte dei tempi, come il culto della morte, da onorare, la chiesa che ad ogni funzione suona sempre a lutto; uomini che da mattina a sera vanno nei campi a seminare inutilmente grano sui sassi, donne dai volti gialli e occhi profondi, coperte da grandi veli neri, bambini denutriti e scalzi corrono lungo le vie, analfabeti e non battezzati, colpiti dalla miseria, dalla malaria, e da un domani che tarda ad arrivare.
<< - Niente, - come dicono a Gagliano. - Che cosa hai mangiato? - Niente. - Che cosa speri? - Niente. - Che cosa si può fare? - Niente. - La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo. L'altra parola, che ritorna sempre nei discorsi è crai, il cras latino, domani. Tutto quello che si aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è crai. Ma crai significa mai>>.
Una società atavicamente matriarcale, abitata da vivi e morti, da streghe con i loro filtri d'amore e incantesimi per far ritornare l'amato, da spiriti dispettosi, lupi mannari e mamme mucche.
Eppure accanto a tanta ingenuità, arretratezza e impulsi pagani, Levi mostra quanto tanto rimaneva di quei valori umani fondamentali, l'ospitalità, la compassione, l'innocenza, che in quella terra lontana ancora perduravano.
"Cristo si è fermato a Eboli" è un libro che mi ha tenuta avvinghiata alla lettura, ma anche nei momenti di non lettura è stato un testo che portavo sempre con me: tanto mi ha dato intellettualmente e umanamente e la cui intensità e autenticità sono difficili da ricusare poiché si offrono al lettore come un dono.
"Cristo si è fermato a Eboli" è un viaggio alle origini della nostra civiltà, un viaggio che si abbandona commuovente al romanzo, alla poesia, alla storia e al presente.
Questo mondo tristemente covato sotto il peso dell'ingiustizia sociale e dell'indifferenza politica, abusato prima dal regno borbonico, dal papato e infine da un'Unità che lì non è mai arrivata, che non ha posto ancora il suo messaggio di salvezza.
"Aliano sul burrone" (1935), C. Levi |
Già dalla premessa Levi apre con una esplicita condanna allo Stato, dichiarato vero fondamentale ostacolo per la risoluzione del problema del Mezzogiorno e progressivamente si sviluppa nella ricerca delle sue possibili cause, che si inoltrano nell'infido pregiudizio di una certa inferiorità di razza e di un peso morto per l'Italia del nord o nel continuo scontro di queste due realtà (nord e sud, campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana) <<diversissime, nessuna delle quali è in grado di assimilare l'altra>>, che solo un forte senso di appartenenza ad una sola di cultura può risolvere.
A questo si aggiunge la grave incertezza economica, la mancanza di infrastrutture, opere pubbliche non promosse, e male peggiore, l'esistenza di quella piccola borghesia dei paesi, gravida di quei piccoli fascismi che si nascondono silenziosi dietro la burocrazia e i poteri locali.
<<È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale>>.
L'autore riesce a strappare con coraggio il velo dipinto che ammantava, di esaltato lirismo e poetica dannunziana, l'ambiente e la vita dei pastori, dei contadini nel XIX E XX secolo. I personaggi, qui, si dimostrano vividi e reali, senza eroismi o chiusi in spazi ameni e bucolici. Così sembra quasi impossibile dimenticare le figure di donna Caterina e della sua vana battaglia, della strega Giulia e dei suoi incantesimi, la disponibile e buona Parroccola, del pigro podestà don Luigino, dei medicaciucci Gibilisco e Milillo, del misantropo parroco don Trajella, del sanaporcelle, del becchino incantatore di lupi, delle donne, i ragazzi, le capre, i monachicchi e gli spiriti.
Ma la grandezza di quest'opera,ciò che la rende nobile ai nostri occhi, non risiede tanto nella sua manifesta espressione delle difficoltà meridionali o nelle descrizioni dei personaggi, ma nell'aver saputo raccontare e accettare questa diversa civiltà, la nostra. Non è presente nessun tipo di umorismo o scherno da parte dello scrittore, solo amore e identificazione.
L'uscita di questo libro fu un vero scossone nel panorama letterario internazionale e sociale dell'epoca: d'improvviso le realtà del Mezzogiorno non si nascosero più, ma molti intellettuali italiani storsero il naso davanti a tanta miseria e pochezza, quasi che fosse esecrabile anche solo parlarne.
Nel 1948 il leader del partito Comunista Palmiro Togliatti, in visita a Matera, definì i Sassi "vergogna nazionale" e risanare divenne in seguito un dato di fatto.
Ma il vero gesto d'amore fu quello di Carlo Levi, quando alla sua morte, volle essere seppellito ad Aliano e ritornare, questa volta per sempre, dai suoi contadini.
M.P.
Libro:
"Cristo si è fermato a Eboli", C. Levi, Mondadori
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