Dietro la pittura : la rabbia e la fierezza di Artemisia Gentileschi
"Una delle prime donne che sostennero colle parole e con le opere il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito tra i sessi." ("Artemisia", Anna Banti)
Sullo stupro dicono sia un male atavico che poggia le sue origini in culture diverse dalla nostra.
No, non è vero.
Nella Bibbia lo stupro era unicamente un reato contro la proprietà, perché la donna non figurava nient'altro che tra il patrimonio di un uomo. Nella Grecia classica i grandi filosofi asserivano l'inferiorità fisica e mentale delle donne, fino a perdersi nel mito quando Aiace Oileo violenta Cassandra nel tempio di Atena. La dea non si scompone sulla violenza subita subita dalla donna ma alla profanazione del suo simulacro. Erano le leggi dello Stato ad avere maggiore importanza, quando venivano trasgredite, che le vittime; la comunità ad essere offesa che il singolo. Nell'antica Roma questo non era considerato un crimine se compiuto in battaglia dai vincitori sulle donne dei vinti o se seguito da un matrimonio. A Roma non si potevano uccidere le vergini, ma l'uomo sapeva come aggirare la situazione.
Leggendo "Cassandra" della scrittrice tedesca Christa Wolf e l'interessante intervento di una signora nella pagina social del blog (e che ringrazio ancora), ho scoperto un mondo di cui ignoravo l'esistenza.
Quello delle popolazioni dell'Asia Minore, anticamente caratterizzate da una società matriarcale, passate al corrispettivo maschile con l'insediamento dei greci.
La distruzione di Troia o delle città affini, portò all'annientamento di civiltà antiche e soprattutto alla
diffusione di quella politica degli uomini greci fatta di violenza, religione, potere.
La donna è stata per secoli minacciata ancor più che dalle violenze, dall'impossibilità di realizzarsi come un essere umano indipendente, di usufruire liberamente e secondo coscienza del proprio corpo e della propria intelligenza. L'uomo ha visto (e ne continua a vedere) un pericoloso rivale nella lotta per la sua affermazione di dominio e controllo.
La vicenda drammatica di Artemisia Gentileschi (1597-1652) fu un fatto che sconvolse l'opinione pubblica nel XV secolo; portato in lungo processo sotto Papa Paolo V, ma puramente discusso come un mero pettegolezzo conclusosi fra l'ilarità e la crudeltà.
Fu riesumato dalla storia solamente a distanza di secoli, e quando il genio della pittrice italiana inconfutabilmente riconosciuto.
E la tragicità vissuta accompagnò molte delle sue opere; con rabbia e fierezza di tocchi di colore del pennello sulla tela.
"Susanna e i Vecchioni" (1610) |
"Susanna e i Vecchioni" venne realizzata nel 1610, un anno prima dell'aggressione. Per molto tempo l'opera ha fornito controversie per quanto riguardava la sua attribuzione e questo dubbio si era fossilizzato negli anni a causa della giovane età della pittrice (allora tredicenne) ma più probabilmente per i pregiudizi che i critici d'arte (materia allora in appannaggio esclusivo all'uomo), mostravano nei confronti del grande talento pittorico della donna pittrice o della donna in generale.
L'essenziale composizione del dipinto esalta tutta la drammaticità del tema, nei colori e nelle sue forme.
Artemisia riprese il soggetto da una delle storie bibliche più conosciute, estrapolata dal libro del profeta Daniele : quello della bella Susanna irretita dai due giudici di Babilonia e poi da questi denunciata di immoralità per la collera di non essere riusciti nel loro perverso intento.
La tematica presentava numerosi precedenti pittorici, da Lotto a Reni, Tintoretto, Rubens; un po' per edificare il popolo e un po' per soddisfare gli occhi di committenti voyeur, ma in quel 1610 a riproporre la vicenda della casta Susanna fu la mano e il pensiero creativo di una donna.
Nel quadro non ci sono luoghi ameni e lussureggianti, non sono presenti vesti colorate, gemme o qualsiasi altro ornamento. C'è un cielo presago sotto cui si stagliano, ingombranti, due figure maschili intente a confabulare alle spalle di una Susanna sorpresa al bagno e inorridita ai sussurri lascivi dei due. Gli uomini non sono raffigurati nell'età più anziana, come nelle precedenti versioni, ma esprimono dal corpo possente una una certa virilità contro la purezza delle bianche membra della donna.
L'accuratezza anatomica, la veridicità dell'elaborazione confluiscono in una espressività drammatica che non ha trascorsi. Non si può sapere se già all'epoca la Gentileschi abbia subito degli approcci non graditi, ma il viso voltato da una parte e le braccia alzate in alto ne evidenziano il disgusto e la repulsione; visti con gli occhi di una donna.
"Le sue armi furono: dipinger sempre più risentito e fiero, con ombre tenebrose, luci di temporale, pennellate come fendenti di spada." Ibidem
L'opera che testimonia, nero su bianco, la dolorosa vicenda della Gentileschi, lasciata ai posteri, è la sua "Giuditta che decapita Oloferne". Concepita proprio durante il processo nel 1612 e pensata dai critici come una rivalsa nei confronti dell'aggressione e del suo violentatore, ancora sorprende per l'innata comunicatività dei volti dei protagonisti e la vigoria dell'azione.
Anche questa di Giuditta presa in prestito dalla Bibbia, fu illustrata in passato da vari artisti affascinati dal potere che questa donna ebbe sul più forte degli uomini : la bella e ricca vedova di una Betulia sotto assedio dalle truppe nemiche del generale Oloferne, sotto il regno di Nabucodonosor, uccide senza paura il grande nemico, portando la salvezza al suo popolo.
Come nella "Susanna" anche questa riproduzione vanta una forma stilistica essenziale, non ricca di elementi decorativi e quindi più vicina alla realtà che in un tempo lontano.
In una probabile camera del generale, Giuditta è presentata mentre affonda con determinazione la spada nella gola di Oloferne, aiutata dalla sua ancella (qui giovane rispetto in altri dipinti) che tenta di controllare la difesa dell'uomo, appena destato dal sonno: il suo viso è di chi è stato sorpreso in un avvenimento che non poteva prevedere. Ma ogni ribellione è vana; il suo sangue sgorga sul bordo del letto.
"Giuditta che decapita Oloferne" (1612-13) |
Altri prima di lei si erano concentrati sulla bellezza e sul coraggio del personaggio; la Gentileschi aggiunge la fermezza e l'autocoscienza del proprio ruolo.
L'opera è un movimentato intreccio di braccia, concentrazione, muscoli tesi e contrasti tra luci e oscurità.
Durante il processo, l'aggressore Agostino Tassi (1580-1644), noto paesaggista romano,si difese sostenendo che la giovane era stata consenziente, ingiuriandola di vita promiscua e dimostrandone il fatto di essere stata per molti mesi sua amante.
Artemisia si appellò alla propria innocenza e ingenuità, sottoponendosi perfino allo stritolamento dei pollici, tortura usata per estorcere la verità, che, e questo la donna lo sapeva bene, avrebbe potuto danneggiarle le dita.
I giudici condannarono il Tassi ad un allontanamento da Roma di cinque anni, poi ridotti a due e infine la sentenza venne completamente ignorata. Tassi poteva vantare Scipione Borghese (nipote del Papa) come protettore.
L'ingiustizia subita segnò tristemente la vita di Artemisia Gentileschi e la portò a sfogare il suo mancato diritto, ancora prima nell'arte, nel lavoro, instancabilmente fino alla morte.
Si comprende bene quanto la storia biblica di Giuditta abbia stimolato il ferito amor proprio della giovane pittrice.
Ma il sangue di quell'Oloferne che zampillando macchia il letto, non potrà che fornire alla donna, una possibile rinascita, e non solo intellettuale.
M.P.
Fonte :
"Le grandi donne del Rinascimento italiano", Marcello Vannucci, Newton e Compton Editori
Libro :
"Artemisia", Anna Banti
Mi è sempre piaciuta Artemisia Gentileschi, per il suo tratto così potente. Il fatto che abbia subito l'aggressione più vecchia del mondo, il modo sempre uguale in cui un uomo dimostra la propria pochezza (a 400 anni di distanza, non c'è stata alcuna evoluzione, qui), mi ha sempre disgustato e fatto infuriare. In questo dipinto, i visi concentrati, freddi e intensi delle due donne mi hanno sempre affascinato. Niente, in quel momento, avrebbe potuto distogliere Giuditta da quello che stava facendo. Stessa sfumatura inesorabile sul viso dell'ancella, mentre in quello di Giuditta forse c'è un colore leggerissimo di esultanza vincente... e come negargliela? Io applaudo a questo quadro di ammirazione e gioia.
RispondiEliminaDici Bene Loredana, è un inno alla rinascita.
EliminaNon so molto di Artemisia Gentileschi, eppure sembra che il suo impegno si sia volto costantemente in direzione dell'affermazione della dignità della donna sia nella determinazione mostrata nel perseguire il suo stupratore, sia nell'imporsi in un contesto, quello dell'arte, che, come molti altri, non era certo disposto ad accogliere pittrici femminili. A distanza di secoli, Artemisia ha vinto la sua battaglia, ma, come tante altre donne talentuose e vittime di pregiudizi e violenze (non solo sessuali), non ha potuto assistere al riconoscimento del suo valore.
RispondiEliminaConcordo con quello che scrivi cara Cristina e purtroppo nulla è stato fatto per cambiare il corso della storia.
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