"La Marcia di Radetzky" di Joseph Roth


"Tutti i concerti di piazza - che avevano luogo sotto il balcone del signor capitano distrettuale - avevano inizio con la Marcia di Radetzky. Benché i membri della banda ne avessero una conoscenza tale da poterla suonare nel pieno della notte e del sonno senza ricevere indicazioni, il direttore riteneva necessario leggere ogni singola nota dello spartito."




Il 2018 è arrivato e colgo ancora l'occasione per augurare un buon anno a tutti i lettori del blog mentre mi appresto a recensire l'ultima lettura dell'anno passato che purtroppo non sono riuscita a completare prima, "La Marcia di Radetzky" di Roth.
Dopo la buona annata del 2017, il libro che lo ha concluso non mi ha lasciata molto entusiasta: ho trovato alcuni passi lenti, dovuti anche alle lunghe descrizioni e al repentino passaggio di un protagonista all'altro in modo discontinuo, e in alcuni momenti perfino noioso tanto da dover saltare (ahimè) qualche riga per non addormentarmi troppo. D'altro canto ho scorto dei brani encomiabili, soprattutto nel momento di dover trascrivere un concetto o un evento seguendo metafore o percezioni alludendo a sentimenti o azioni.
Questa strana dualità riscontrata, mi ha portata ad apprezzare nell'opera più i contenuti che la trama; meno gli uomini Trotta e più il suo messaggio finale, o meglio la morale perché tutto è narrato da Roth come una fiaba.
Joseph Roth (1894-1939) fu il più sensibile cantore della "finis Austriae" insieme a Stefan Zweig (1881-1942) e Ernst Lothar Müller (1890-1974), di quel momento storico e geografico del crollo del potente impero austro-ungarico e insieme nostalgico e spirituale per la sorte di milioni di popoli e di un mondo non sopravvissuto.
Joseph Roth fu un personaggio particolare. Austriaco ma nato in Galizia, portò dentro di sé la sua cultura ebraica e sostenitrice del regno asburgico e per questo la fine di quel mondo fu per lui una devastazione. Butterato dall'alcolismo e da alcune manie, Roth annegò le sue frustrazioni in un lento e disordinato declino fisico e interiore.
Il suo noto romanzo venne pubblicato nel 1932, un anno prima della dittatura hitleriana, e muove le sue basi all'interno del declino e della caduta dell'impero attraverso la storia di tre generazioni dell'immaginaria famiglia di origine slovena dei Trotta.
L'emblematico titolo ripreso dal brano musicale di Strauss, diventato il simbolo delle vittorie degli Asburgo dopo la vittoria a Custoza nel 1848, viene qui usato invece per schernire un tempo di glorie, fanfare, dorate armature, medaglie al valore che non esistono più, perché il romanzo si apre si con un gesto eroico ma nel bel mezzo della sconfitta degli austriaci a Solferino (la nostra II Guerra d'Indipendenza) nel 1859; il primo segnale di una imminente e lenta disfatta di un secolo in decadenza.


"La Marcia di Radetzky" racconta le alterne vicende di successo e di fallimenti di una famiglia di soldati e burocrati sloveni, dal loro zenit fino al nadir dell'impero austriaco e l'avvento della Grande Guerra. Joseph Trotta, sergente dell'esercito durante la battaglia nell'Italia settentrionale, salva la vita all'imperatore Francesco Giuseppe che concede al suo soldato una protezione eterna e il baronato del villaggio originario di Sipolje. Trotta diventa "l'eroe di Solferino", la pietra di paragone per i suoi cittadini e successori, ma la sua fede cieca e i suoi principi per l'imperatore vacillano a causa di un revisionismo storico. Il figlio Franz, capitano distrettuale di una provincia della Moravia, diviene anche lui il simbolo del potere ligio e onorevole di quell'epoca eppure già spettatore di un mondo presto in frantumi, attraverso la storia del triste e sensibile figlio Carl Joseph destinato alla carriera militare nelle zone del confine orientale.
Qui il tenente Carl Joseph rimane compromesso in una mondanità scellerata, fatta di promiscuità, giochi d'azzardo, duelli illegali, disonori pubblici, di quelle primi crepe visibili all'interno del grande imperial regio in attesa di una guerra salvificatrice che sarà altresì la sua tomba.

Stefan Zweig nell'opera "Il Mondo di Ieri" aveva scritto lo sfaldamento di questo vasto regno nel suo settore politico, sociale ed intellettuale; Roth lo fa con quello che per secoli era stato il vanto di questa terra, l'esercito, la forza maggiore che sosteneva insieme milioni di popoli diversissimi fra loro.
L'autore mostra la degradazione di una coralità umana e religiosa, dove uomini immobili e annoiati nei loro acquartieramenti, svuotati di qualsiasi ordine e valore morale nelle zone più estreme del confine, dove ha inizio l'avvicinarsi di un tramonto ineluttabile, connaturato in primis nell'animo di una generazione malata ed alienata che si fa carico di una precedente armonia che in realtà era solamente illusoria e chimerica.

J. Roth

La fine del mondo di ieri fu per il collega Zweig (togliendo il disastro della guerra), l'aprirsi di un'era moderna e libera, forse il momento storico più felice per lui; diverso fu per Roth e questo è da ricercarsi in un motivo ideologico: la caduta dell'impero coincideva con quello dello shtlet ebraico, da cui egli proveniva, con la conseguente fuga degli ebrei dall'Europa Centrale costretti ad emigrare verso Occidente, significava una nuova diaspora e la dispersione di tutta quella cultura ebraica mitteleuropea¹ ritrovatasi senza protezione ed ignara di quel che sarebbe avvenuto nemmeno vent'anni dopo.
Joseph Roth è da considerarsi degnamente fra i più grandi rievocatori di epoche passate e non stupisce il suo stile malinconico e poetico passare fra le macerie di un villaggio in rovina, fra le vergogne, il silenzio, armature arrugginite, azioni non più adatte alla commemorazione. Il mondo di ieri era rimasto per lui solo una fiaba da rammentare.


M.P.



¹ Tema approfondito anche dallo scrittore yiddish Israel Joshua Singer in "Da un Mondo che non c'è Più"





Libro:

"La Marcia di Radetzky", J. Roth, Newton Compton.

Commenti

  1. L'impressione dell'eccessivo dilungarsi della narrazione si è imposta anche alla mia attenzione, poi, immergendosi nella lettura, ho capito che la narrazione standardizzata, che quello che Roth ha voluto rappresentare era proprio il lento e inesorabile disfacimento di un mondo. La trama, come hai detto, ne risulta svuotata e indebolita, ma il messaggio arriva forte e chiaro in tutta la sua malinconia.

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    1. Hai ragione Cristina, sembra che Roth abbia voluto protrarre la sua penna proprio per dare il senso di questo lento, inesorabile disfacimento. Roth merita comunque di essere osannato come il grande cantore della fine di un'epoca.

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